Politica e mercati, la Cina e noi
Ho sempre sostenuto che la politica incida poco sull’andamento dei mercati nel lungo periodo. Nel breve però può provocare scossoni. Soprattutto in alcuni contesti.
Short term pain, long term gain è uno di quegli adagi famosi nei mercati finanziari, ma non solo. Il significato è molto chiaro: per ottenere un risultato importante nel lungo termine, bisogna essere disposti anche a sacrificarsi lungo il percorso. La sofferenza può talvolta essere intensa nel breve periodo, ma se si resiste fino all’obiettivo finale, si può essere ben ricompensati.
I mercati azionari rappresentano un terreno fertile e molto classico per mettere alla prova tale massima. La logica dell’investimento azionario di lungo periodo è esattamente questa e nella storia ha dato grandi soddisfazioni a chi ha saputo applicarla con disciplina. Inoltre, le sue evoluzioni nella forma dei piani di accumulo di lungo termine, grazie ai quali si può ad esempio eliminare il rischio di acquistare o vendere al momento sbagliato a causa della componente emotiva, o di un accumulo con approccio contrarian, che porta ad acquistare (di più) in fase di discesa del mercato, hanno reso l’investimento azionario accessibile e profittevole per molti.
Su un orizzonte temporale molto esteso, infatti, la crescita economica - per quanto riguarda i mercati azionari - e il meccanismo generale del rendimento composto riescono a dispiegare i propri effetti nonostante gli episodi negativi, anche gravi, di breve termine.
Le vicende della politica tendono ad avere una vita breve: nella maggior parte dei casi rientrano fra le questioni di corto respiro. Ciò che è accaduto negli ultimi mesi in Cina, tuttavia, merita una riflessione più accurata. Perché il governo di Pechino è intervenuto direttamente in alcuni settori dell’economia, anche su società quotate o quotande, anche su listini stranieri. E perché l’intervento riguardava la regolamentazione. Qualcosa che in effetti potrebbe modificare il campo di gioco per tutti gli operatori, probabilmente per il lungo termine.
Cerchiamo quindi di capire che cosa sia successo e le motivazioni del governo cinese, in modo da poter valutare meglio la situazione in prospettiva.
Procedendo a ritroso nel tempo, l’intervento più recente riguarda il settore dell’educazione, in particolare quello del tutoraggio e della preparazione ai test di ammissione universitari. Pechino ha stabilito che gli operatori privati in questo settore debbano lavorare senza scopo di lucro, senza realizzare profitti. Questo perché negli ultimi anni il costo dei corsi e della formazione privati in questo settore è aumentato molto. La pressione economica sulle famiglie che desiderano mandare i propri figli in università prestigiose è salita a livelli difficili da sostenere. E soprattutto incompatibili sia con l’idea cinese di poter dare un’istruzione pubblica di qualità e meritocratica ai livelli più alti, sia con l’obiettivo demografico di spingere le famiglie ad avere più figli. Non sorprende quindi che Pechino, potendo farlo, abbia scelto di intervenire subito e con decisione.
Nelle scorse settimane Didi (una sorta di Uber cinese), società quotata da poco in borsa, è stata multata a causa di una gestione, ritenuta non sufficientemente accurata e sicura, dei dati personali degli utenti.
In novembre 2020 l’IPO di Ant Group, la società fintech di Jack Ma, patron di Alibaba, è stato bloccato perché il governo centrale ha deciso di provare a regolamentare il settore fintech in modo molto simile a quello finanziario tradizionale.
Le reazioni a queste scelte hanno coperto uno spettro molto ampio. Soprattutto in Occidente, c’è stato chi ha criticato duramente il decisionismo di Pechino – e il contesto politico che rende possibile interventi così rapidi e unilaterali. E chi invece ha tutto sommato apprezzato il fatto che il governo cinese abbia deciso di affrontare di petto e in modo netto la questione di regolamentare attività economiche che, soprattutto quando avvengono attraverso piattaforme tecnologiche, in altre parti del mondo sono riuscite a sfuggire al quadro normativo a cui invece si attengono i concorrenti “tradizionali”. Dappertutto la valutazione del merito dei provvedimenti si è mescolata a considerazioni sui rapporti tesi fra Pechino e personaggi in vista, in ascesa economica e talvolta polemici, come Jack Ma, o fra Pechino e altri Paesi del mondo. Tensioni che potrebbero avere influito sulle decisioni che hanno inciso su aziende quotate, anche su mercati esteri, che talvolta rappresentano grandi patrimoni personali e in cui molti soggetti stranieri possono avere investito.
Non è il caso di avventurarci sul terreno insidioso di questo tipo di riflessioni. Mi sembra più importante sottolineare due aspetti significativi.
Il primo è che questi interventi, almeno a mio parere, non riducono il potenziale di crescita dell’economia cinese nel lungo periodo. Anzi, è possibile che un sistema normativo più stringente e chiaro possa rappresentare un elemento di supporto per la crescita. Una situazione da cui gli investitori potrebbero beneficiare.
Il secondo è che Pechino è intervenuta in ambiti dei quali si è discusso molto anche in Occidente, con minori possibilità di incidere altrettanto rapidamente sulle regole e la fiscalità: nel bene e nel male, le differenze nei sistemi e nei processi politici e normativi in questo caso contano. Le scelte della Cina rappresentano un precedente e fissano un quadro regolamentare strutturato e più chiaro, almeno in apparenza. Non escluderei che altri comparti di rilievo dell’economia possano essere oggetto di intervento nel prossimo futuro.
La fluidità del contesto politico-normativo rappresenta uno dei rischi che gli investitori nei Paesi emergenti tipicamente sanno di dover affrontare. La discesa dei mercati azionari di Cina e Hong Kong, e non solo, è stata una reazione, almeno in parte comprensibile, da parte di investitori che potrebbero avere deciso di spostare altrove il proprio capitale, almeno nel breve termine. Le decisioni di Pechino hanno spinto alla reazione gli USA, che parlano di introdurre limitazioni per la quotazione di aziende cinesi. La dialettica si farà verosimilmente più intensa e un nuovo fronte di negoziazione potrebbe aprirsi, alimentando l’incertezza di breve periodo.
Molto spesso, quando si osservano in retrospettiva i rendimenti medi di un investimento di lungo periodo, si nota che le oscillazioni di breve sono riassorbite, anche se nell’immediato la forza di gravità di alcune correzioni profonde o la spinta rialzista di alcune fasi di entusiasmo possono sembrare irresistibili.
Come nel caso di altre correzioni brusche, credo che la discesa recente del mercato azionario cinese, inclusa la sua componente tecnologica, abbia buone probabilità di rappresentare un’opportunità di investimento attraente nel lungo periodo. Con la possibilità aggiuntiva di un quadro normativo meglio delineato.
Note
Leggi anche:
T con Zero n. 51, Luglio 2021, Transitorio e strutturale.
T con Zero n. 50, Giugno 2021, Sul saper scegliere e i benefici della diversificazione.
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