Prolungare la vita
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Come possiamo garantire che la combinazione di rallentamento della crescita e aspettativa di vita più lunga non si traduca in una qualità della vita inferiore?
A fronte della crescente longevità, si tende comunemente a pensare che la popolazione attiva sarà gravata da una percentuale via via maggiore di pensionati. I lavoratori giovani non solo vedono una quota crescente dei loro redditi destinata a supportare gli altri, ma devono anche accantonare risparmi più consistenti per far fronte all’allungamento della vecchiaia.
In molte economie sviluppate è in atto un innalzamento delle età di pensionamento, ma tra i settantenni è scarsa la propensione a proseguire a lavorare ancora. Lavorare più a lungo, spendere meno, risparmiare di più, il tutto con una rete di sicurezza ridotta: è una prospettiva tutt’altro che allettante. Quali alternative esistono?
Secondo Andrew Scott, professore di economia presso la London Business School, il punto di partenza è la riformulazione dei concetti di lavoro e pensione: distribuire istruzione, lavoro e pensione come blocchi monolitici su periodi più lunghi non può funzionare “perché se si vive fino a 100 anni, significa che bisogna lavorare per 60, il che è piuttosto deprimente”.
Ciò sta già modificando la struttura del rapporto tra vita lavorativa e non lavorativa. Sostiene infatti che “non esiste un’unica età predefinita in cui tutti smettono di lavorare, dato che si rileva un’ampia varietà nelle età di pensionamento”.
Ros Altman, esperto di previdenza e membro della House of Lords del Regno Unito, ne evidenzia un aspetto positivo: “l’abbandono di un’età di pensionamento prevista consentirebbe differenze individuali, agevolando vite lavorative successive fondate su una scelta, anziché su una necessità”.
Il Professor Scott è fautore dell’idea di offrire alle persone maggiori opportunità di cambiare carriera, lavorare in modo più flessibile –aspetto evidenziato dal COVID – e muoversi tra imprenditorialità, lavoro sociale e istruzione. “Se non si fa così”, sostiene, “si è colpevoli di un pessimo dispendio di tempo, perché non è detto che quel che si è imparato a 20 anni sia ancora adeguato quando si arriva a 70 o 80 anni”.
Jim Pugh, Co-founder, Universal Income ProjectQuando parliamo di vivere più a lungo, intendiamo semplicemente un allungamento della vecchiaia? O periodi produttivi più lunghi?
Ciò è ribadito da Jim Pugh, co-fondatore dell’Universal Income Project, che si domanda: “Quando parliamo di vivere più a lungo, intendiamo semplicemente un allungamento della vecchiaia? O periodi produttivi più lunghi? Se le persone contribuiscono alla società più a lungo, a quel punto una popolazione in età più avanzata non costituisce più un onere, ma un beneficio”.
Una soluzione prospettata – e sperimentata in vari Paesi dalla Finlandia al Kenya – è quella di un reddito di base universale (Universal Basic Income, UBI). Si tratta di un versamento dello Stato a tutti i cittadini così da garantire un livello minimo di sussistenza. Jim Pugh, naturalmente, ne è un forte sostenitore: “L’UBI crea un’infrastruttura che consente alle persone di essere più produttive e partecipare appieno alla vita sociale, che è esattamente il tipo di situazione auspicabile se si parla di cambiamenti su ampia scala e durata della vita”.
Tuttavia, i costi dell’UBI non sono affatto bassi. Si calcola che, nel caso degli Stati Uniti, i trasferimenti annui totali ammonterebbero a circa 3-4 trilioni di dollari USA, per dare a ogni adulto 1.000 dollari al mese, e forse 250 dollari a ogni bambino, “che – afferma – è veramente il livello di sussistenza”.
Secondo Pugh, ciò potrebbe essere finanziato con un’imposta sui pagamenti ai beneficiari, “cosicché se percepisci denaro, paghi una percentuale del tuo reddito per rimborsare tale trasferimento in misura massima, per esempio, a quattro volte il livello di povertà. A quel punto, il costo netto scende rapidamente di un fattore di tre o quattro”. A titolo di riferimento, sottolinea che queste aliquote di imposta sul reddito sarebbero “analoghe a quelle dell’era pre-Reagan”.
Sebbene la baronessa Altmann ammetta che l’UBI esercita un grande fascino in quanto “livellatore”, al tempo stesso solleva alcuni dubbi: “chi definirebbe questo livello? e i politici non sarebbero tentati di orientarlo verso determinati gruppi?”. A suo avviso, ciò potrebbe riproporre problemi identici a quelli dell’attuale sistema di welfare: “Alcuni spenderanno tutto il loro reddito e la società non potrà lasciarli senza un soldo. Altri avranno maggiori esigenze e l’elenco delle aspettative non farebbe che aumentare”.
Nonostante l’UBI comporti somme esorbitanti, Pugh sostiene che il modo in cui le società stanno già rispondendo al COVID potrebbe catalizzare un cambiamento: “Ogni momento di crisi come questo induce la gente a ripensare alle proprie idee”, anche se aggiunge “l’interrogativo è quanto di tutto ciò persista una volta finita la pandemia”.
Prospetta la possibilità che la trasformazione tecnologica in atto fornisca una base a questo processo: “Stiamo scoprendo nuovi modi più efficienti di fare le cose. Gran parte delle innovazioni tecnologiche oggi offrono maggiori possibilità di fare di più con meno, di conseguenza anche in caso di una minore percentuale di ore lavorative nell’arco di una vita, si potrebbe stare piuttosto bene”.
La baronessa Altman concorda: “Se la crescita e gli investimenti si mantengono robusti, grazie ai miglioramenti di produttività e ai progressi tecnologici, un maggiore equilibro tra lavoro e non lavoro non significa necessariamente un declino economico, – avverte, tuttavia, che – ciò richiede una pianificazione a lungo termine, che non va molto d’accordo con i cicli politici a breve termine”.
Se i governi non affrontano queste problematiche di lungo termine, in che modo il singolo cittadino può effettuare una pianificazione finanziaria? Paul Jackson, Global Head of Asset Allocation Research di Invesco e coautore di The 21st Century Portfolio, ossia “Il portafoglio del XXI secolo”, ritiene che questo sia improntato su quattro fattori fondamentali: bassi rendimenti obbligazionari, profilo demografico, cambiamento climatico e innovazione tecnologica. “L’ultima parte della nostra vita è ridotta e risente, per esempio, del fatto che i rendimenti obbligazionari siano così bassi”, afferma. Dinanzi a tali propulsori, “perché mai passare dalle azioni alle obbligazioni?”. Raccomanda invece un portafoglio core di azioni e immobiliare, nonché portafogli satellite focalizzati sull’Africa (a suo giudizio un motore di crescita futura), tecnologie di riduzione ed eliminazione del carbonio, nonché innovazione per la sostituzione del lavoro. “Cedendo gli asset in pratica si segue un percorso analogo a quelli dei contratti di rendita vitalizia”, aggiunge Jackson, “ma auspicabilmente a un rendimento decisamente migliore”.
Joachim Klement, responsabile della strategia della banca di investimento Liberum Capital, conviene che i rendimenti obbligazionari siano “stabilmente bassi”, ma è convinto che fondare qualunque strategia alternativa sui trend demografici sia “quasi impossibile”. “I cambiamenti demografici avvengono a un ritmo molto lento. Abbiamo un trend di 20-30 anni che si sovrappone con eventi di tre, quattro, cinque anni, nel cui quadro gli investitori cercano di seguire un segnale che è un quinto rispetto al rumore del mercato”.
Joachim Klement, Head of strategy at investment bank Liberum CapitalI cambiamenti demografici avvengono a un ritmo molto lento. Abbiamo un trend di 20-30 anni che si sovrappone con eventi di tre, quattro, cinque anni, nel cui quadro gli investitori cercano di seguire un segnale che è un quinto rispetto al rumore del mercato.
Ciò nonostante, viviamo già in una società che, oltre a essere più vecchia in rapporto alla generazione precedente, continua a invecchiare. Per la baronessa Altmann, ciò crea un’ampia serie di nuove esigenze legate all’invecchiamento, in termini di servizi alla persona, come “salute fisica o mentale, tenersi in forma, trattamenti di bellezza e della pelle”, o servizi finanziari. A proposito di questi ultimi, cita ad esempio “mutui che aiutino la gente a costituire capitali di credito per la vecchiaia con il presupposto che il loro reddito da pensione sia un sostituto adeguato del reddito da lavoro”. Questi strumenti in effetti esistono, ma sono costosi rispetto ad altri prodotti sul mercato “e non ritengo che rispecchino i bassi rischi dei mutuatari più anziani rispetto a quelli più giovani”.
Come diceva Mark Twain, le previsioni sono sempre difficili, soprattutto se riguardano il futuro. Tuttavia, i propulsori fondamentali – come invecchiamento della popolazione, cambiamento climatico e rivoluzione tecnologica – sono già in azione. Il problema che dobbiamo ancora risolvere è come questi si possano tradurre in percorsi finanziari verso una vita più lunga ma non meno gradevole.
Il debito crescente, sia societario che governativo, e i rendimenti più bassi implicano un allontanamento definitivo dei portafogli pensionistici dalle obbligazioni?
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