Dopo mesi di incertezza rispetto la sostenibilità fiscale di molte economie sviluppate, ed una serie di sorprese positive rispetto la capacità delle aziende di assorbire lo shock legato ai dazi, quei segnali di rallentamento economico che erano emersi nelle scorse settimane, soprattutto per il mercato del lavoro americano, si sono concretizzati. Con il dato pubblicato settimana scorsa, la creazione di nuovi posti di lavoro risulta infatti praticamente stagnante negli Stati Uniti, la crescita di 22 mila unità lavorative per il mese di agosto, insieme alle revisioni al ribasso dei mesi precedenti, descrive un’economia in cui il rischio di contrazione nella spesa dei consumatori è più che concreto. Il mercato del lavoro si trova oggi in un equilibrio delicato tra il rallentamento ciclico sul fronte della domanda di lavoro ed una riduzione della forza lavoro a causa delle maggiori restrizioni all’immigrazione. L’economia americana appare quindi a due velocità, da un lato la fiducia delle imprese ed il livello di investimenti in capex che si confermano in tenuta con gli indicatori PMI e ISM in aumento, dall’altro un rischio di aumento nel tasso di disoccupazione che molti economisti vedono come un rischio non lineare, cioè un aumento che una volta partito possa accelerare in maniera rapida e difficile da contenere in seconda battuta. La probabilità di uno scenario di vera e propria recessione è ancora marginale, ma il mercato dovrà navigare nei prossimi mesi una possibile fase di rallentamento ciclico per l’economia statunitense. La politica monetaria della Fed varia quindi da quello che poteva essere interpretato come un taglio preventivo a settembre, ad un vero e proprio aggiustamento nel livello dei tassi di riferimento che possa essere più sostanziale e duraturo; in questa fase l’equilibrio nella funzione di reazione della Fed non può che continuare ad essere orientato al preservare il mercato del lavoro. In settimana avremo il dato sull’inflazione CPI che è previsto in aumento, ma dovrebbe essere la componente legata a prodotti e beni finiti a guidare il rialzo in linea con l’impatto previsto delle tariffe. Nei prossimi mesi servirà una lettura dettagliata delle dinamiche sottostanti le pressioni inflattive; per ora, nonostante il dato aggregato sia ben al disopra del target della Fed, non ci sono indicazioni della presenza di effetti secondari che arrivino cioè a sostenere nuove pressioni salariali. La strategia di sostegno all’occupazione della Fed dovrà comunque conquistare la fiducia del mercato rispetto la capacità di mantenere stabilità nelle attese di inflazione di lungo periodo e di conseguenza sui segmenti a lungo termine della curva dei tassi. Le attese del mercato si sono aggiustate anticipando almeno due tagli dei tassi di 25 punti base entro la fine dell’anno, ma un taglio di maggiore portata di 50 punti base sarà sicuramente discusso e portato sul tavolo della Fed da almeno due membri del consiglio direttivo. Il proseguo del cammino di aggiustamento della politica monetaria dipenderà ovviamente dagli sviluppi economici ma ad oggi il mercato prezza un tasso terminale al di sotto del 3% per i Fed Funds da raggiungere verso la fine del 2026. L’attuale livello del 3.5% sui tassi del treasury a due anni spinge al ribasso la quotazione del dollaro, come effetto a catena si va inoltre riducendo il cosiddetto costo dell’hedging valutario e più investitori andranno probabilmente ad implementare la copertura del rischio cambio sul dollaro. In Europa, le condizioni economiche si confermano piuttosto stabili su mercato del lavoro e vendite al dettaglio mentre sul lato della produzione industriale affiorano segnali di incertezza legati al passaggio degli ordinativi legati all’entrata in vigore delle tariffe. L’instabilità politica in Francia dovrebbe questa settimana raggiungere il suo culmine con la caduta di un altro governo. La Banca Centrale Europea rimarrà in fase attendista sui tassi, anche se il presidente Lagarde continua a sottolineare i rischi al ribasso sulla crescita, aprendo quindi ad ulteriori tagli ai tassi qualora tariffe e rallentamento globale continuino a pesare sulla Zona Euro. Le dimissioni del primo ministro giapponese vanno a complicare lo scenario di politica economica in Giappone. Dopo le disastrose elezioni e la perdita di una maggioranza sia alla camera alta che alla camera bassa, il partito liberal democratico dovrà rinnovare la propria leadership. L’economia giapponese appare comunque in grado di proseguire un cammino di crescita e maggiore profittabilità, la recente instabilità politica porta un indebolimento dello yen di breve periodo ma più in generale economia e mercato azionario giapponese sembrano sempre più in grado di sostenere un rialzo dei tassi di mercato.